Il 9 d’aprile, Vittorio Arrigoni – Vik per noi – mi scrisse in un e-mail che: «Me ne vado subito in quanto quest’ignominia sarà finita.» L’«ignominia» era l’ultimo rovescio di esplosivi israeliani lanciati da F-16 ad atterrare sugli abitanti della Striscia di Gaza.
A mezzogiorno il 14 d’aprile mi sono accorto che Vik era stato rapito da estremisti salafisti a Gaza City. Cominciammo subito a telefonare, a cercare informazioni dappertutto, facendoci aiutare dagli amici e contatti in Gaza. Ci assicurarono, e n’eravamo sicuri pure noi, che presto potrebbe uscirne; che i suoi rapitori si acorgerebbero di chi avevano catturato, che rimpiangerebbero d’averlo fatto, che si vergognerebbero.
Fu alle ventun’ore del 14 d’aprile che le ultime pastoie fragili con cui ci aggrappavamo alla speranza si sono spezzate : Reuters informava della sua morte, poi la Bbc, e poi la notizia era dappertutto, in una cascada, una valancia di tragedia che andava scatenata per tutto il globo, entrando la rete degli interessati, noi che stavamo seduti all’attesa, in ansia, a Gaza, in Germania, negli Stati Uniti, l’Italia, la Cisgiordania, tutti quei commossi del lavoro svolto durante quasi un decennio coll’International Solidarity Movement e per la liberazione della Palestina, sperando sentire qualsiasi notizia del nostro amico che non fosse la peggiore.
In un certo momento nel 14 d‘aprile, un assassino giordano e diversi assassini palestinesi uccisero Vik con un filo metallico, strangolandolo e convertendolo di questo modo in ciò che la gente lassù denomina «un martire della solidarietà». Aveva 36 anni.
Tuttavia solo riesco a credere a metà che Vik sia morto. Forse tornerò a Gaza City e lo chiamerò sul suo cellulare. Come sempre, non risponderà, ma mi richiamerà fra qualche minuto e dirà when – arabo perdove – e ci prendremo un caffè e fumeremo il narghilè, e andremo in palestra a Tel al-Hawa, da dove lo portarono via gli assassini che lo strangularono. Ma poi lancio un’altra occhiata a quel video orribile che lo mostra insanguinato davanti alla telecamera, e le immagini dei miei amici a Gaza, sconvolti nell’ospedale Al-Shifa e piangendo nel Gallery Café, e torno alle goccioline d’informazione che confermano che fu impiccato; e vedo quell’immagine orribile nel mio occhio mentale e mi è chiaro, sebbene so che non dobbiamo ricevere notizie dei morti attraverso le fibre ottiche, che Vik è morto e non tornerà più.
Feci la conoscenza di Vik nel Cairo quando noi due stavamo aspettando di poter entrare a Gaza. Passammo molto tempo in attesa col nostro amico Adie Mormech: dal comincio di febbraio 2010, mentre il Ministero degli Esteri di Egitto differeva sempre più l’apertura del portale di Rafah. Vik non era molto felice nel Cairo; era come un animale abituato alla libertà che si trova ingabbiato, zampando le sbarre. Generalmente usciva per socializzare un po’, o – naturalmente – per manifestare al fondo delle scale del Sindicato dei Giornalisti contro la dittatura di Mubarak, «il despota odiato» secondo la descrizione brusca e feroce di Vik. Ma in realtà voleva arrivare a Gaza, dove meglio poteva aiutare.
Mentre stavamo in attesa cominciai a sentire le store: Vik che fu rapito da bordo di un peschereccio a qualche chilometro dalla costa di Gaza da soldati della marina israeliana, che lo spararono con un taser per portarlo via, dopodiché si avvicinava alla riva a nuoto, sull’orlo dell’ipotermia; Vik che quasi dirottò un bus che lo stava espellendo dopo un tentativo di entrare alla Cisgiordania attraverso la frontiera colla Giordania. Una volta, ci raccontò, si aggrappò a una panca con tantoa forza che gli soldati israeliani incaricati di portarlo via decisero che sarebbe più facile sollevare la panca che asportare Vik.
Nel Cairo, alla fine del febbraio, ci informarono che ci permetterebbero l’ingresso l’1 di marzo. Ci procurammo i nostri documenti, e Vik e io andammo di corsa ad el-Arish sulla costa mediterranea del Sinai. Dopo cinque ore di attesa seduti davanti al portale di Rafah, mangiando datteri e bevendo caffè con palestinesi che aspettavano entrare, Vik era triste e sicuro che non ci permetterebbero l’ingresso a Gaza – «mumkin (magari) tu, io no», diceva ripetutamente – finalmente ci accompagnarono attraverso la porta metallica nera, e poi attraverso la frontiera e nel terminal di passaggeri sull’altro lato. Il volto e l’atteggiamento di Vik cambiò quasi all’istante. cercava contatti nel suo cellulare, televonava, disponeva affinché un amico ci raccogliesse, sorrideva, piuttosto di parlare gesticolava, mostrando agli agenti del servizio sicurezza dell’Hamas foto di se stesso in un libro su una delle imbarcazioni Free Gaza – era stato a bordo di diverse traversate che ruppero l’assedio.
Dopo, mentre guardavamo sconvolti come apripista blindati israeliani, accompagnati da carri armati, strappavano un tratto di terreno coltivato nel borghetto di El-Farahin, nel sudest di Gaza, mi accorsi che lui era stato a Nablus quando l’esercito israeliano lo accerchiava con carri armati. Di questo me ne sono accorto quando Vik mormorò per inciso che non aveva «visto i carri armati così da vicino da quando ero a Nablus». Ancora più tardi mi accorsi che Vik era uno dei pochi volontari a visitare il campo profughi distrutto di Nahr al-Bared nel nord del Libano nel 2007.
Non sono sicuro di come mi sono accorto che Vik era uno dei diversi volontari dell’Ism a rimanere in Gaza per tutta la durata dell’assalto israeliano sul saliente costiero nell’inverno di 2008-2009, quando gran parte del territorio fu devastata e il cielo si riempì di fosforo bianco. Vik accompagnava ambulanze, e raccontava a scatti quanto ci aveva visto: corpi bruciati, pieni di fori, spesso quei dei bambini. Mi risultava che era la cosa peggiore che lui aveva vista nella vita. I rapporti di Vik su quella guerra, pubblicati sul suo blog e il giornale Il Manifesto, li terminava col detto Restiamo umani, che presto diventò il titolo del libro che pubblicò sulla guerra, e che diventò lo slogan del settore italiano del Movimento per la solidarietà colla Palestina.
Vik scriveva in italiano, e scriveva bene assai. Per lui, la resistenza civile in Gaza era parte dell’onda larga d’insurrezione contro l’oppressione; confrontava i volti della resistenza contadina palestinese a quelli «immortalizzati nelle manifestazioni del Movimento dei Lavoratori senza Terreni nel Brasile o agl’indiani zapatisti di Chiapas», cospargeva i suoi testi di citazioni ed allusioni a Eduardo Galeano e Nelson Mandela.
Il collante del suo linguaggio eravano i termini arabi che aveva imparati durante nove anni di lavoro per la liberazione dei palestinesi, raggruppati in gran parte intorno al lavoro e alla politica dell’Ism: imbarcazioni, politica, manifestazioni, contadini, pescatori, resistenza, libertà.Tutti quanti conoscevano Vik sapevano che le lingue non eravano il suo forte. E tutto quanti lo conoscevano sapevano que questo punto debile non importava nulla. Vik communicava la sua solidarietà di forma molto più irrefutabile coi suoi atti.
Un’altra cosa che mi colpisce è la sua negoziazione minuziosa del modo di mettere in pratica una politica della solidarietà. Come si sostiene un governo che resiste un’occupazione, pur sostenendo i giovani attivi, mobilitati che procurano di accendere una nuova intifada? C’è una formula per cose di questo genere? No. Queste cose si stabiliscono nella pratica reale, e in questo Vik era un modello, pur quando si assicurava, con una riluttanza timida, nata della sua voglia di non comandare gli altri a bacchetta, affinché non perdessimo di vista il bersaglio: l’occupazione.
Vik era eroico. Ma non era eroico perché non conosceva la paura. Vik era coraggioso proprio perché la conosceva, la paura. Non riesco a contare le volte che lo vedetti di piedi nelle zone di confine di Gaza mentre le pallottole dei cecchini israeliani atterravano con un rumore sordo, alzando nuvole di polvere spaventose a centimetri dai suoi piedi. Perché affrontava faccia a faccia il macchinario inesorabile della violenza israeliana, Vik sapeva che poteva morire. Ciononostante non appassì mai, non perché voleva morire né perché non ci aveva paura, ma piuttosto perché stava facendo quanto era da fare.
Per questo motivo, Vik scelse di abitare in Gaza e ci si accomodò con quei che avevano bisogno di quanto lui poteva offrire – la sua testimonianza, la sua penna, la sua voce, il suo calore, la sua cura e attenzione – più di qualsiasi altro.
Finalmente, la solidarietà di Vik era, nel senso più importante, l’accumulo silenzioso di buone azioni e accompagnamento, giorno dopo giorno, per mesi e mesi. Scherzava col mio portiere, accompagnava i giovani manifestanti di Gaza, giocava coi bambini di Gaza, si fece amico di Khalil Shaheen e Mahfouz Kabariti – sono questi atti seriali, quotidiani, di accompagnamento e amicizia gli elementi della solidarietà, di una vita, una vita straordinaria. La fermezza, il significato di questo sostegno si manifestavano forse soprattutto nella decisione di Vik di differire, e differire ancora la sua partita da Gaza. Come si domandò ansiosamente con Shaheen il mercoledì, 24 ore prima del suo rapimento, «Ma come me ne vado da Gaza? Non voglio che pensino che io sia fuggito», mentre la Striscia di Gaza si vedeva scossa coi brividi delle munizioni israeliane. Come ha detto un amico suo, Shahd Abusalama, lui stava con loro durante i bombardamenti e gli massacri, «soffrendo con noi, e più di noi, nelle prigioni israeliane», e chissà: anche omicidi israeliani.
Quel diferimento gli costò la vita.
I sentimenti predominanti degli amici di Gaza con cui ho parlato nella settimana scorsa sono stati la tristezza, la furia, la frustrazione, l’impotenza, e soprattutto la vergogna. Tutti mi hanno espresso la vergogna di aver permesso che un ospite, un amico, un compagno sia crudelmente rapito e strangolato sulla loro terra, nella loro patria, nella Palestina. L’universalità di quella vergogna secondo me dimostra definitivamente che è gratuita.
Lo storico radicale americano William Appleman Williams scrisse che nel rovesciamento dell’impero «moriranno alcuni di noi. Ma è molto importante come si muore. La nostra morte dice la verità sulla nostra vita.» Quindi, non importa se ad ammazzarlo fossero salafisti oppure burattinai israeliani che reggevano le loro file, Vik è morto perché era a Gaza, a resistere l’occupazione, proprio così come morirono anche i suoi nonni, partigiani communisti, resistendo l’acciaio e il terrore del Fascismo italiano. Anche là si trova la verità della sua vita.
Vik disse che voleva «farsi ricordare per i suoi sogni.» Sognava di un mondo libero, un mondo senza muri, senza gabbie, e senza catene. Sapeva che mentre Gaza era ingabbiato, la nostra umanità si trovava diminuita, e perciò esortava agli suoi lettori a restare umani.
Ci proveremo, sadik.
E ci mancherai a noi che rimaniamo indietro.
E renderemo omaggio al tuo legato, il tuo sogno.
Max Ajl è dottorando nella sociologia dello sviluppo presso la Cornell University, e serviva con Vittorio Arrigoni in Gaza, nell’International Solidarity Movement. Il suo blog è www.maxajl.com.